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Una storia rompicapo a Caldiero

Uno starnuto
fa perdere il Cer
al bambino

Un bambino a lezione di tennis
Un bambino a lezione di tennis
Un bambino a lezione di tennis
Un bambino a lezione di tennis

Cosa accadrà a settembre a scuola, al primo colpo di tosse o linea di febbre di un alunno o di un insegnante? Ce ne danno un saggio amaro i centri estivi in queste settimane, nel quali la macchina si ferma a ogni piccolo sospetto di coronavirus. Doveroso farlo, per ragioni di sicurezza. Ma per i genitori diventa insostenibile.

 

Ce lo conferma una mamma di Caldiero che ha iscritto a un centro estivo gestito da una cooperativa il suo bambino di 9 anni. Ha due figli e lei e il marito, per barcamenarsi nel tenerli e per non sovraccaricare i nonni, hanno dato fondo a ferie e permessi. Poi la scelta del centro estivo, che però, per il bambino è finito a neppure metà del turno. Il piccolo, infatti, giovedì è andato al centro. Di pomeriggio, invece, ha fatto allenamento di tennis. Forse lo stare qualche ora sotto il sole gli ha procurato un colpo di calore e la sera ha avuto il raffreddore.

 

Venerdì, visto anche il maltempo, la mamma ha deciso di tenerlo a casa e ha avvisato la coordinatrice del cer che non avrebbe mandato suo figlio al centro il giorno dopo. Ma si è aperto per lei un rompicapo. La cooperativa chiede, per il rientro del bambino, il certificato medico del pediatra. La mamma fa allora visitare il bambino dal medico.

 

«E inizia il dilemma», ci racconta la signora: «Il medico mi dice che i certificati per la riammissione a scuola e ai centri estivi sono stati aboliti a gennaio e che secondo il protocollo covid il fatto che il bambino sia stato visto dal pediatra e che quest’ultimo non abbia prescritto il tampone è di per sé la conferma del mancato rischio e di buona salute».

 

La mamma torna a casa. Ma il gestore del cer ribadisce di non poter riprendere il bambino. Devono passare almeno 14 giorni. «Ho proposto di firmare un’autocertificazione, ho persino chiesto come far fare a mio figlio il tampone privatamente», continua, «ma l’unico valido è quello prescritto dal medico, che però non ha ritenuto fosse il caso di prescriverlo». Un cane che si morde la coda, insomma.

 

«La cooperativa si tutela, è giusto. Il pediatra è il nostro riferimento e ha fatto quello che doveva fare. Allora mi chiedo: se il medico non attua la misura del tampone, la struttura non deve riammettere mio figlio? O il medico mi scrive due righe o il Cer accetta il bambino. Soprattutto, se a settembre a scuola una maestra o un bambino avessero il raffreddore, che si farà? Si chiuderanno le scuole?». Alla fine la mamma ottiene dalla cooperativa il risarcimento dei giorni persi, ma quel che la preoccupa di più è a chi lasciare ora il bambino. «Non posso caricare i nonni, io e mio marito abbiamo finito i giorni a disposizione. È una situazione insostenibile che porto alla luce perché credo che a settembre succederà questo. E come si potrà chiedere la collaborazione delle famiglie nel comunicare le condizioni di salute dei figli se ci si trova davanti a questi paradossi burocratici?». •

Maria Vittoria Adami

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