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Nonno, padre e nipote, il ferro batte anche nel cuore di Matteo

La morte di Marco Da Ronco, lo scorso ottobre, è stata anzitutto una grande perdita per la famiglia ma anche per il mondo dell’arte che ruota attorno alla tradizione del ferro battuto. È stato un anno terribile il 2019, che ha decimato la famiglia Da Ronco, con la scomparsa di Nella, ad aprile, sorella di Teresa, mamma di Marco, poi a maggio di Benvenuto, altro artista del ferro, e infine di Marco, che una malattia affrontata con coraggio per anni, ha poi definitivamente vinto. La bravura di Marco non è stata solo nel piegare e battere il ferro, ma soprattutto nel garantire continuità a una tradizione di famiglia che è diventata secolare: il coinvolgimento del figlio Matteo, nella bottega e fucina, è stata l’opera a cui senza dubbio il paese è più grato. Appena sedicenne Matteo, infatti, assistendo il padre, realizzò e montò con orgoglio all’isola d’Elba un grande cancello a tema marino, che era stato commissionato da un imprenditore del posto. «Matteo si è appassionato a questo lavoro e mi fa certamente un grande piacere», aveva commentato Marco in un’intervista a L’Arena nel gennaio 2016, presentando l’opera e pensando che la tradizione della famiglia Da Ronco non sarebbe finita con lui. Matteo, allora ancora studente, aveva trascorso l’estate in bottega collaborando nella realizzazione di quell’opera lunga 3,5 metri e alta 1,5, quattro quintali di peso, in ferro pieno che riproduce il fondale impreziosito con flora e fauna marina: stelle marine, anemoni di mare, pinne nobilis, collocati su piani diversi, e realizzati battendo il ferro, senza utilizzare saldature. Oggi Matteo è un ventenne che ha ricevuto sulle spalle una grossa eredità ma che ben supporta: «Ho cominciato a frequentare la bottega nell’estate della terza media, avevo solo 14 anni. Mi sono preparato con tre anni di studio di carpenteria e con corsi in Accademia per imparare le tecniche del disegno. Ammetto che da piccolo non mi piaceva frequentare la bottega perché mi dava l’idea di qualcosa di vecchio, poi piano piano ho imparato il valore della tradizione e il tesoro di cui sono depositario: dal bisnonno Berto, al nonno Bertin, allo zio Benvenuto, fino a papà Marco c’era stata una continuità che non poteva essere interrotta e per mio papà era una soddisfazione vedermi lavorare in bottega e sapere che la tradizione avrebbe avuto un futuro. Fino all’ultimo periodo», aggiunge Matteo, «quando la malattia gli aveva tolto l’uso delle gambe, si faceva accompagnare in carrozzina in bottega per vedere come lavoravo e se quello che avevo preparato era realizzato a regola d’arte». Di tempra dura come il ferro, come il nonno Berto, ascoltava i colpi dei martelli nella bottega sotto la sua camera da letto e brontolava: «No i ciapa gnanca ‘n colpo», riferendosi alle dissonanze delle martellate che secondo lui erano «sbagliate». Ma il figlio Bertin, e poi il nipote Marco, ne continuarono con successo e il nome e la fama e oggi sarebbe orgoglioso di vedere come il giovane nipote prende in mano e cura le sue opere. «Vengono talvolta dei clienti con delle opere realizzate da papà o dal nonno e mi chiedono di restaurarle: mi avvicino con timore e venerazione, ma lo faccio volentieri perché sento un forte legame spirituale maneggiando i loro lavori. Tutti finora sono stati entusiasti dei risultati e credo che la ragione stia anche in questa affinità che ci lega attraverso il ferro e il fuoco», ammette Matteo. Ma guarda anche avanti, Matteo, a quello che può realizzare da solo e ai progetti che la vita gli riserva: «Mi piacerebbe collaborare con degli architetti per creare degli arredamenti d’interni unici, fedeli alla tradizione e nello stesso tempo con la carica della novità e dell’innovazione», si augura, mentre il martello colpisce ancora su quell’incudine secolare e la mente spazia su nuove forme e nuove sensibilità. •

V.Z.

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