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Il racconto

Il medico malato: «Vivo isolato in mansarda, mi lasciano il pranzo sulle scale»

La fotografia scattata dal medico l’8 marzo e che ha avuto un significato profetico
La fotografia scattata dal medico l’8 marzo e che ha avuto un significato profetico
La fotografia scattata dal medico l’8 marzo e che ha avuto un significato profetico
La fotografia scattata dal medico l’8 marzo e che ha avuto un significato profetico

«Senza dispositivi idonei ci saranno tante sedie di medici che rimarranno vuote». Vito Petrarota, uno dei cinque medici della medicina di gruppo di Caldiero, questo aveva scritto l’8 marzo scattando, nell'ambulatorio dove da anni fa il medico di famiglia, una foto mandata poi ai colleghi. Uno scatto profetico perché solo due giorni dopo si è ritrovato tra i 15 medici di base veronesi positivi al Covid 19. «Vi dico nome e cognome perché non devo vergognarmi di niente. Mi sono ammalato facendo il medico, e ne sono fiero». Il suo incubo è iniziato il 10 marzo. «Solo così, come un incubo, puoi chiamare una vita da isolato», spiega.

«Isolato dal mondo, isolato dalla famiglia: con mia moglie e mio figlio ci parliamo, gridando, da un piano all'altro di casa, ci videochiamiamo. La mansarda è diventata tutto il mio mondo, una stanza da cui non posso uscire; un mondo in cui vivo terribilmente solo con la consapevolezza che anche se le cose peggioreranno affronterò tutto da solo: è questo il vero dramma. Il Covid19 toglie tutto: in guerra c'erano i preti, adesso nemmeno quello, nemmeno una mano da stringere forte se hai paura. In guerra si stava rinchiusi solo con la sirena che annunciava un bombardamento». Ha 50 anni, il dottor Petrarota; nelle gambe l'energia da sfogare d'inverno sulle piste di sci di fondo e tutto l'anno in piscina o al mare. Ora guarda le colline dalla finestra di casa sua, in un paese dell'est veronese, «aspettando che passi. Questa è l'unica cosa che si può fare: tenere duro e aspettare che passi, gestendo le cose che non vanno bene e difendendo con le unghie e con i denti la determinazione a restare a casa mia finché non mi mancherà il fiato».

 

IL CONTAGIO. Tutto succede in un ambulatorio, uno di quelli della medicina di gruppo: una decina di persone tra medici, segretarie, infermiere e specializzandi in medicina generale. «Ne avevo una al mio fianco quel giorno, avrei potuto essere suo padre. Entrò quel paziente, che lamentava una leggera febbre e indossava una mascherina chirurgica: io di mascherine protettive ne avevo solo una e decisi di darla alla dottoressa, ripiegando per me su una mascherina semplice che avevo in studio. Visitai il paziente ma non emerse nulla, tant'è che lo rimandai a casa. Due giorni dopo quel paziente mi chiamò: era peggiorato. E così contattai 118 e Servizio igiene e sanità pubblica (Sisp); persone molto competenti, devo dire. Fu disposto il ricovero in ospedale, venne verificata la positività e oggi, purtroppo, è in situazione un po' critica». Appena saputa la notizia, Vito non si muove da casa e chiede di essere immediatamente sottoposto a tampone: continua a lavorare da casa fino a quando, due giorni dopo, viene informato di aver contratto il virus. «A quel punto sono stati controllati tutti i colleghi di studio. Solo un'infermiera finisce in quarantena. Poi scattano il controllo sulla rete dei contatti e la sanificazione dell'ambulatorio. E la mia nuova vita è iniziata così».

 

IL RIFUGIO-PRIGIONE. «Sono fortunato», dice il medico, «ho una casa grande e una mansarda. Mi sono trasferito qui e ho interrotto ogni contatto con la mia famiglia. Scendo solo per pranzo e cena e mia moglie e mio figlio escono all'aperto. La colazione me la mettono sulle scale», racconta. «In questi dieci giorni ho avuto una sincope, la febbre, dolore alle ossa, tosse, ma sono fortunato», dice per la seconda volta, «perché sono un medico e so cosa fare. E poi sono monitorato dal Sisp. Misuro la febbre ogni tre ore, ho un saturimetro a portata di mano: dovrei cavarmela. E dovessi affrontare l'ospedale, sarei solo. Non ci voglio pensare». Da lì, da questa stanza sui tetti, fa il suo lavoro per quel che gli è possibile: «Sento tutti i miei pazienti fragili, dai diabetici agli ipertesi agli anziani che sono da tempo soli a casa, li monitoro a distanza, aiuto i colleghi con le informazioni sui miei pazienti storici e cerco di seguire il più possibile l'ambulatorio. Va così anche il pomeriggio. Poi ci sono i film, i libri, la cena e il film che non riesco mai a vedere fino in fondo perché mi addormento».

E la festa del papà è stata straziante, «un dolore immenso. Mi è mancata la carezza di mio figlio, il suo bacio. Mi manca mia moglie: è bruttissimo dormire soli». Tra quattro giorni sarà sottoposto a tampone, a domicilio: se sarà negativo dopo due giorni l'esame sarà ripetuto e solo se la negatività sarà confermata potrà tornare al lavoro.

 

L’APPELLO. «Io vi dico: state a casa! È un grosso sacrificio? Possono assicurarvi che l'isolamento non lo capisci se non lo vivi. Siamo esseri sociali, viviamo di relazioni: a parole tutto è semplice, ma come puoi apprezzare un figlio dallo schermo di uno smartphone? Io dico a tutti: stata a casa se ci tenete ai vostri affetti», supplica Vito, «perché serve una forza interiore straordinaria che arriva col tempo. Lo ha detto Stephen Hawking, il mio faro: mai arrendersi!». •

Paola Dalli Cani

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