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Il viaggio in Paksitan di quattro veronesi

In moto sull'autostrada più alta del pianeta

Il viaggio in Paksitan di quattro veronesi
Paolo Cracco, Stefano Mirandola, Fernando Erbisti e Marco Zanetti
Paolo Cracco, Stefano Mirandola, Fernando Erbisti e Marco Zanetti
Paolo Cracco, Stefano Mirandola, Fernando Erbisti e Marco Zanetti
Paolo Cracco, Stefano Mirandola, Fernando Erbisti e Marco Zanetti

Un viaggio insolito. Il piacere più grande: un’aranciata ghiacciata dopo chilometri di polvere e pericoli in moto. Lo stupore più forte: le meravigliose cime imbiancate del K2. La sfida vinta: aver percorso la Karakorum highway che porta al confine cino-pakistano ed è la strada asfaltata internazionale più alta del mondo.

Protagonisti di questa insolita vacanza i veronesi Stefano Mirandola 60 anni, avvocato, Fernando Erbisti 52 anni, amministratore di Move Travel agenzia di viaggi di Grezzana, Paolo Cracco, 63 anni, ex tecnico commerciale di un azienda di robotica di Verona e Marco Zanetti, 58 anni, tecnico commerciale di un’azienda di robotica di Verona. Tre di loro erano già in Pakistan, Mirandola li ha raggiunti per ultimo, ad Islamabad dove i primi tre avevano anche incontrato Carlalberto «Cala» Cimenti, quello che era con Francesco Cassardo, e si era infortunato sulla neve del Gasherbrum VII.

«L’obiettivo della motovacanza era percorrere l’autostrada che collega il Pakistan alla Cina», spiega Mirandola, «il luogo che più mi rimasto impresso per bellezza lo Shandur Pass, a 3700 metri, e poi c’è il passo che segna il confine Cino-Pakistano sulla Karakorum highway che è il Kunjerhab Pass, a 4.693 metri. Ci siamo fatti dieci ore di moto al giorno, almeno otto delle quali in strade sterrate. Strade così strette che non immagini ci possano passare due mezzi contemporaneamente. Ed ho capito una cosa, l’articolo uno del codice della strada pakistano recita “superare sempre, in qualsiasi situazione, contromano, in curva, sempre“, eppure non abbiamo visto nemmeno un incidente», scherza l’avvocato Mirandola.

«Abbiamo poi capito un’altra cosa: noi al seguito avevamo una guida e un autista. Ebbene, l’autista è uno schiavo. Poveretto dorme in auto e non se ne stacca mai. Dopo qualche giorno che lo vedevo mangiare mi ero chiesto come mai a giorni si abbuffasse ed altri mangiasse pochissimo. Mi hanno spiegato che lui mangiava i nostri avanzi e quindi la sua razione dipendeva da quello che restava nel piatto. Lo so, ai nostri occhi ciò è inconcepibile».

«Il Nord del Paese è completamente diverso dal Sud. Al Nord ci hanno accolto come delle superstar, volevano farsi foto con noi, ci invitavano nelle case, erano curiosi di sapere che cosa ci facessero questi quattro matti venuti da lontano e con il casco in testa, mentre loro viaggiano in moto con le infradito ed i capelli al vento. Al Sud invece ci guardavano con diffidenza. Qui i chador delle donne venivano sopraffatti dai burka. Ovunque alberghi terribili, sporcizia e povertà, soltanto che al Nord era più dignitosa. Abbiamo bevuto acqua bollita e mangiato tantissimo pollo con il classico pane fatto sulle piastre di pietra».

 

È stato veramente, al di là della fatica fisica, della polvere mangiata, in senso letterale, un viaggio nell’immensità di paesaggi e culture. «Abbiamo conosciuto una tribù, i Kalasha che si narra siano addirittura i discendenti dell’esercito di Carlo Magno, arrivati dalla Grecia per governare la strada che conduceva dalla valle del Panjshir a nord di Kabul fino alla valle di Swat e Chitral in una terra remota detta Kafiristan, terra dei miscredenti, donne bellissime e popolazione con incredibili occhi azzurri. Sono politeisti. Una cosa accomuna il Nord al Sud del Pakistan: a lavorare sodo sono le donne, sempre. E come intoccabili, nei giorni del ciclo vengono rinchiuse tutte in un’unica stanza, non importa se sposate o nubili, tutte nascoste dentro una stanza».

In mezzo a tanto folklore un episodio che resta incomprensibile: «Eravamo nel Sud del Pakistan, dei poliziotti hanno parlato con la nostra guida. E non abbiamo capito per quale ragione abbiano insistito nello scortarci. Avevano, questi poliziotti, rigorosamente in infradito e divise improvvisate, ben sei tipi di sirene, che hanno fatto suonare tutte. Adesso ci rido sopra, ma quel giorno davvero eravamo un poco preoccupati non capendo cosa stesse accadendo. Fa parte dei ricordi che conserveremo di questo straordinario viaggio». 

Alessandra Vaccari

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