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La fuga per la vita
dei Reichenbach,
ebrei veronesi

I genitori, papà Attilio Reichenbach e mamma Marcella Jenna Gian Giacomo e Giancarlo Reichenbach in corso Porta Nuova negli anni Venti
I genitori, papà Attilio Reichenbach e mamma Marcella Jenna Gian Giacomo e Giancarlo Reichenbach in corso Porta Nuova negli anni Venti
I genitori, papà Attilio Reichenbach e mamma Marcella Jenna Gian Giacomo e Giancarlo Reichenbach in corso Porta Nuova negli anni Venti
I genitori, papà Attilio Reichenbach e mamma Marcella Jenna Gian Giacomo e Giancarlo Reichenbach in corso Porta Nuova negli anni Venti

È morto nei giorni scorsi Giancarlo Reichenbach, 87 anni, protagonista, con il fratello Gian Giacomo di tre anni più grande e spentosi quattro anni fa, della fuga per la vita che permise loro di evitare la deportazione in un campo di sterminio.

Rispettivamente di 13 e 16 anni Giancarlo e Gian Giacomo erano ebrei, figli dell’alta borghesia veronese, sfollati a Cerro per sfuggire ai rischi della guerra in città.

La loro vacanza in Lessinia nel settembre del 1943 ebbe una brusca interruzione durante una partita di calcio con i coetanei. Chiamati a bordo campo dal padre, abbandonarono il gioco senza dire una parola e a Cerro non si seppe più nulla di loro fino alla ricostruzione che ne fece L’Arena nel 2009 nell’inserto I volti veronesi dedicato a Cerro. La raccolta a spizzichi di memoria collettiva permise di mettere insieme i tasselli e di tramandare una storia straordinaria, talvolta rocambolesca, degna, di certo, di essere ricordata.

In quell’occasione Giancarlo fu il primo a essere contattato dal cronista dopo che si riuscì finalmente a dare un cognome ai due adolescenti ebrei creduti morti per le vicende razziali e belliche, come tanti loro coetanei, oppure emigranti in America, come altri pensavano.

Invece stavano ancora entrambi a Verona e raggiunto al telefono, Giancarlo ammise di essere stato presente alla sua ultima partita di calcio a Cerro, di cui ricordava solo che era stata giocata sotto il diluvio: «Non mi sono asciugato subito come avrei dovuto e porto ancora le conseguenze di forti dolori reumatici», disse. Ma sono altre le ferite che non si sono più chiuse: «Mi scuso, ma non mi sento di parlare di quegli anni. Mi è capitato di andare in alcune scuole su insistenza di amici, ma si è rinnovata una sofferenza che faccio fatica ad accettare. Ho perso nei campi di sterminio gli zii materni Lina Arianna Jenna e Ruggero Jenna, come tutta la famiglia dei cugini Sforni. Per me è un dolore troppo grande». Fu tutto quello che Giancarlo riuscì a dire, rinviandoci per altri particolari al fratello Gian Giacomo con il quale fu possibile poi ricostruire tutta la storia e la cui testimonianza ebbe degli sviluppi imprevisti.

«Dovevamo andarcene prima che a Verona si insediassero i tedeschi. Avevamo avuto notizia delle morti e delle persecuzioni di ebrei attraverso le segnalazioni delle fräulein, le tate che frequentavano la nostra famiglia e che erano tutte ebree tedesche. Nostro padre conosceva un importante personaggio, direttore del Credito Italiano di Milano, con il quale aveva combattuto nella Grande guerra e che ci mise in contatto con contrabbandieri che a pagamento favorivano l’espatrio in Svizzera», raccontò Gian Giacomo.

La famiglia Reichenbach si trovò in un villaggio del Lago Maggiore in attesa del momento propizio per passare il confine, mentre si ingrossava il gruppo dei transfughi. «Perché quell’assembramento di persone estranee al paese non desse nell’occhio fu organizzato un finto matrimonio: una coppia indossò gli abiti da sposi e tutti ci vestimmo a festa per sembrare gli invitati. C’erano perfino i musicisti. La festa durò fino alle 4 di mattina, quando in silenzio e in fila indiana ci incamminammo verso il confine dove un buco nella rete ci permise di entrare in Svizzera. Mio padre volle che passassimo tutti prima di consegnare il denaro pattuito, perché non succedesse come ai nostri cugini Sforni, rivenduti dai contrabbandieri ai tedeschi per cinquemila lire».

Ai Reichenbach fecero da garanti dei loro parenti residenti a Zurigo. Lì si trasferì Gian Giacomo per continuare gli studi in una scuola italiana fino alla maturità. Il padre Attilio, invece, trovò lavoro come commercialista a Lugano.

«Non possiamo dire di aver ricevuto molta solidarietà a Verona dopo le leggi razziali», aveva confessato Gian Giacomo, che era stato costretto a lasciare la scuola di Verona e fu iscritto dai genitori a un istituto di Tunisi, allora colonia francese, da cui però tornò quando si fecero più minacciosi i venti di guerra. «Ci sono state sbattute in faccia molte porte da quanti consideravamo amici», raccontò con amarezza ma senza odio. Il riposo tra i giusti darà per sempre a entrambi quella pace che non poterono gustare negli anni della loro adolescenza.

Vittorio Zambaldo

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