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La forza di Odilla, giullare della semplicità

Odilla Zanella accanto a un suo quadro
Odilla Zanella accanto a un suo quadro
Odilla Zanella accanto a un suo quadro
Odilla Zanella accanto a un suo quadro

Si presenta con il nuovo anno alla soglia degli ottant’anni, ma Odilla Zanella ha lo spirito e la forza di sempre: un’ energia che le viene dai colori delle sue tele e dai suoni dei suoi racconti che l’hanno resa celebre prima in duetto con l’amica Silvana Valbusa e poi in trio con la figlia Andreina Canteri come «Le giullari della Lessinia». Quello della poetessa è un lavoro che le è sempre piaciuto: «Ma rèndelo?, mi chiedeva sempre el me Toni», e- spressione carica d’’affetto con cui Odilla parla del marito Antonio Canteri, uomo pratico e montanaro concreto, che non capiva ma lasciava fare quella ragazza esuberante che aveva portato sposa in casa a 18 anni «parché el me Toni non aveva tempo di fare il moroso», lo giustifica. Un po’ artisti in famiglia lo sono stati in tanti, dal nonno scultore, al papà musicista, capace di costruirsi un mandolino con un tamiso da polenta trovato nel Progno di Lugo, a un don Pompeo Zanella, prete e pittore. Ma lo spunto per quella che è l’Odilla dei racconti, delle poesie, degli aneddoti è stata la suocera Maria Gaspari detta Marietta, fonte inesauribile di storie vere, con personaggi conosciuti e tratteggiati in ritratti descrittivi bellissimi e al limite dell’inverosimile. Ha trasferito nel colore su tela questo senso del reale, insegnando per un ventennio tecnica pittorica e incitando i suoi allievi a cercare e sentire l’odore dei soggetti ritratti: «Su 300-400 allievi che ho avuto posso dire con certezza che solo un paio lo possedevano davvero. Io sono innamorata di Filippo De Pisis, che considero il pittore “più olfattivo” del XX secolo e, quando sono nel bosco con la mia tela, parlo con gli alberi, ne respiro il colore: se ritraggo un abete deve sentire il profumo dei suoi aghi», aggiunge. La natura entra nei suoi quadri come prorompente vitalità e come memoria: «Ho perfino fatto una serie di ceppi per ricordare alberi tagliati, perché mi dispiaceva che finissero in cenere, senza che fossero in qualche maniera ritratti nella memoria, e ancora oggi piango quando vedo tagliare un albero», rivela. Ma sa anche indignarsi, come nella lirica dove racconta: «Piangeva/ il mio/ bosco/ Piangeva/ un pianto/ diurno e/ notturno/ Piangeva/ la sua chioma/ recisa/ il suo verde/ deportato/ le sue stelle/ senza gambo./ La dittatura/ del cemento/ l’aveva trovato/ panoramico». Quella sul colore delle case in Lessinia è stata una battaglia dura, che l’ha sfiancata: «Quelle della Lessinia non sono case qualunque: posso accettare anche colori insoliti, ma è il tono che non accetto perché deve essere consono con l’ambiente circostante, ma purtroppo è una battaglia di cui sono convinta non ci sarà vittoria», ammette con una punta di amarezza. I suoi quadri proprio per questo tributo alla memoria sono pietre miliari di una strada che s’è persa: le sue case sono ondulate, scancanè, sconquassate, annunciano il crollo, dicono l’essenziale: «Un soggetto bisogna capirlo, amarlo e servirlo, come nostro Signore», ripete con reminiscenze da catechismo che però ben si adattano al concetto, per spiegare ad esempio come mai una casetta dalla Val Squaranto l’ha dipinta ben tre volte da tre angolazioni diverse. I tavoli sono elemento ricorrente nella sua pittura e il critico Umberto Tessari li ha definiti «altari», «perché una casa senza tavolo sarebbe come una chiesa senza altare, priva di spiritualità». La religiosità di Odilla si respira nei suoi quadri, nei suoi racconti, nelle sue liriche, ma è tutt’altro che malinconica, piuttosto francescana, fatta di umiltà, come i soggetti dei suoi quadri e i protagonisti delle sue storie vere: «Ho riso tanto nella vita, ed essere riuscita a trasmettere il sorriso alle persone che ho incontrato è la cosa che conservo con più soddisfazione», conclude, passando tra i muri di casa che sono una pinacoteca della semplicità. • V.Z.

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