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«Cappellano
ma a che ora
ci fucilano?»

I cinque giovani fucilati a Firenze la mattina del 22 marzo 1945: avevano tutti dai 20 ai 22 anni. Li avevano rastrellati le Brigate nere
I cinque giovani fucilati a Firenze la mattina del 22 marzo 1945: avevano tutti dai 20 ai 22 anni. Li avevano rastrellati le Brigate nere
I cinque giovani fucilati a Firenze la mattina del 22 marzo 1945: avevano tutti dai 20 ai 22 anni. Li avevano rastrellati le Brigate nere
I cinque giovani fucilati a Firenze la mattina del 22 marzo 1945: avevano tutti dai 20 ai 22 anni. Li avevano rastrellati le Brigate nere

La mattina del 22 marzo 1944, sotto la torre di Maratona in Campo di Marte, contro il muro delle gradinate dello stadio comunale di Firenze, 15 giovani reclute, dell’esercito della Repubblica sociale di Salò, fucilavano cinque loro coetanei, tutti fra i 20 e i 22 anni, che nei giorni precedenti erano stati rastrellati dalle Brigate nere nella campagna di Vicchio di Mugello, sottratti alle loro famiglie contadine come renitenti alla leva e condannati a morte. Ad assistere questi infelici, che gridano disperati la loro innocenza, c’era un sacerdote veronese, di Bosco Chiesanuova, don Angelo Beccherle, tenente cappellano militare e dei patrioti.

OGGI ABBIAMO la descrizione minuziosa e partecipata della loro ultima notte e della loro morte grazie alla relazione che don Angelo inviò all’Archivio di Stato del Vaticano e al Cln, il Comitato di liberazione nazionale antifascista. La riscoperta della sua figura è merito dell’alpino di Grezzana Luigi Albrigi, infaticabile ricercatore di storie e di memoria, che ha voluto riportarla alla luce in occasione della festa della Liberazione di quest’anno, raccogliendo informazioni e notizie.

LEANDRO CORONA, Ottorino Quiti, Antonio Raddi, Adriano Santoni e Guido Targetti sono stati insigniti della medaglia d’oro al valor civile, perché non erano né partigiani, né impegnati politicamente con l’antifascismo, ma solo ragazzi che non volevano saperne di andare ancora in guerra e dopo l’8 settembre erano tornati in famiglia a lavorare i campi.

Catturati con facilità in 11, grazie a una spiata, furono tutti processati sommariamente: due graziati, uno condannato a 15 anni, un altro a 20 anni, due a 24 anni e cinque alla pena capitale: dovevano servire da esempio a chi li avrebbe fucilati, per spiegare quale sarebbe stata la loro sorte in caso di ripensamento, e a quanti ancora si ostinavano a stare dalla parte giusta.

Don Antonio la notte che precedette l’esecuzione, dopo aver tentato invano di salvare i giovani, coinvolgendo anche l’arcivescovo, incontrò per primo Raddi a cui diede la notizia che suo fratello gemello Marino era stato graziato. «Ma è vero? Me lo assicura?». Avutane conferma si asciugò gli occhi dalle lacrime e chiese di confessarsi. «Padre, mi confessi, non ho paura di morire; di due figli la mia mamma ne ha almeno uno. Che grazia mi ha fatto la Madonna!».

IL SACERDOTE lo convinse a scrivere una lettera ai familiari e nel frattempo arrivarono nella cella accanto all’ufficio del comandante del carcere anche gli altri quattro e don Angelo prosegue il suo racconto: «Erano disperatissimi: gridavano, si dimenavano, si buttavano a terra, mi abbracciavano e a mani giunte invocavano pietà, quasi che io potessi salvarli. Volevo lasciarli sfogare, volevo consolarli, volevo aiutarli, volevo pure calmarli. Non sapevo neppure io che fare. Per più di un’ora durò questa estrema esasperazione, eppoi venne il collasso fisico e morale per tutti. Santoni svenne e si riebbe più volte, poi rimase svenuto tutta la notte. Non riuscivo a far loro prendere niente, non volevano fumare, poi aiutato dai secondini li convinsi a prendere una sigaretta che non fumarono».

TARGETTI era incredulo: «Non mi devono fucilare, non ho fatto nulla di male, ho combattuto ed ho sempre fatto il mio dovere, ero Guardia alla frontiera e non sono mai stato punito».

Per tutti loro alle tre del mattino don Angelo celebrò la messa a cui assistettero alcune guardie e anche il comandante del carcere. Po si sedettero tutti intorno e cominciarono a parlare a ruota libera: «”Cappellano, ci faranno tanto male quando ci fucileranno? Per le sette saremo già morti? I giornali parleranno di noi? Ci diranno traditori, ma noi siamo innocenti! Diranno che avevamo armi, ma noi eravamo tutti a casa nostra, disarmati. Come si starà sottoterra, morti?”. Questi e cento altri discorsi simili facevano quei poveretti, mentre cercavano da me parole di speranza. Non gliene potevo dare. Era imminente l’esecuzione, e illuderli sarebbe stata empietà e delitto: “No, ragazzi, basta con questi discorsi, confidate nel Signore, che prima di voi subì la più ingiusta morte!”. “A che ora ci fucilano?”, era la domanda più insistente. Ed io, laconicamente, rispondevo: “Non lo so”».

IL SACERDOTE racconta che il brigadiere dei carabinieri che entrò in cella per ammanettare i ragazzi dovette girarsi per non far vedere le lacrime e infine uscire, facendosi sostituire da un collega nel compito. Nel tragitto in auto verso lo stadio don Angelo racconta che «erano impazziti dal dolore. Ero seduto in mezzo a loro e non facevo che sorreggerli, accarezzarli e baciarli».

Con la scarica del plotone di esecuzione tre morirono subito, per due di loro, feriti solo di striscio ci fu un supplemento di supplizio con diverse rivoltellate al volto da parte del maggiore Mario Carità, capo del reparto servizi speciali, meglio noto come famigerata Banda Carità.

IL CAPPELLANO racconta che «un ufficiale, uomo senza dignità e senza cuore, chiese a dei suoi soldati: “Beh, ragazzi, vi è piaciuto il cinematografo di stamani?”. Alcuni comandanti radunarono le loro truppe e spiegarono loro che i giustiziati erano stati giustamente fucilati, essendo degli assassini comuni, colpevoli di molti delitti, che seminavano o terrore o morte ovunque. Niente di più falso: erano cinque semplici e poveri figli del popolo, vissuti sempre tra la quiete dei loro campi, lassù in Mugello, lontano da tutti; mai avrebbero sognato che giù, a valle, nel marciume della città e del gran mondo, potessero esistere tante ingiustizie ed iniquità».

Vittorio Zambaldo

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