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«Per ore al muro
con i fucili
puntati contro»

Virginio Marchi, 84 anni. Vive  a RaldonUna gita con i compagni di catechismo: Virginio Marchi è seduto nella fila centrale, terzo  da sinistra
Virginio Marchi, 84 anni. Vive a RaldonUna gita con i compagni di catechismo: Virginio Marchi è seduto nella fila centrale, terzo da sinistra
Virginio Marchi, 84 anni. Vive  a RaldonUna gita con i compagni di catechismo: Virginio Marchi è seduto nella fila centrale, terzo  da sinistra
Virginio Marchi, 84 anni. Vive a RaldonUna gita con i compagni di catechismo: Virginio Marchi è seduto nella fila centrale, terzo da sinistra

La sveglia ritrovata sotto le macerie della casa distrutta dalle bombe aveva le lancette ferme sulle 10.30. «Era una giornata molto calda, quel 6 luglio del 1944. Avevo undici anni e, assieme ad Andrea e Giovanni, due dei miei otto fratelli, ero nel vigneto dei signori a sistemare rami e foglie in vista della vendemmia».

Virginio Marchi, classe 1933, quella giornata ce l’ha bene impressa nella memoria. Abitava a Montecchia di Crosara con nove fratelli, mamma e papà, mezzadri che coltivavano e allevavano bestiame. «Era metà mattina. A un certo punto abbiamo sentito un gran boato in cielo. Alzati gli occhi, abbiamo visto uno schieramento di aerei dirigersi verso di noi. Sembrava lanciassero dei foglietti a terra. Noi eravamo poco più che bambini e, con l’entusiasmo di chi vive nella miseria e vede apparire un regalo inatteso, siamo corsi in strada ad attendere quelli che a noi sembravano volantini. Ma, via via che si avvicinavano alla terra, diventavano sempre più grandi. Era ormai troppo tardi quando ci siamo accorti che erano bombe. Non avevamo più scampo».

Una centrò in pieno la loro casa. «Io fui colpito sulla schiena da un pezzo di muro, i miei fratelli e le altre persone, dal forte spostamento d’aria, furono catapultati nel fossato. Non riuscivo a respirare, credevo fosse per la polvere. Mi rifugiai a casa degli zii, lì vicino. Niente da fare, i miei polmoni non si gonfiavano».

Virginio venne così trasportato con un camion all’ospedale di San Bonifacio dove rimase ricoverato per una settimana. Trauma da esplosione. Quando venne dimesso, della loro casa restavano solo le macerie. «Non sapevamo dove andare. Per qualche settimana siamo stati ospitati da parenti finché non abbiamo trovato una casa mezzadrile composta da due camere e una cucina. La condividevamo con un’altra famiglia. In tutto eravamo in quindici: nove fratelli e due genitori noi, mamma, papà con tre figli gli altri. Dormivamo in sei per letto e il bagno era fuori, nel campo».

Nelle settimane successive Antonio, Angelina e Giovanni, i tre figli Marchi più grandi, furono mandati a lavorare per la Todt, l’impresa incaricata dai tedeschi di costruire gallerie per fermare l’avanzata degli americani. Il resto della famiglia coltivava i campi, come loro consuetudine. «Mezzo raccolto veniva consegnato al padrone e mezzo lo tenevamo noi. E così pure con le bestie: mezze a loro e mezze a noi. Io vestivo quello che scartavano i miei fratelli e ai miei genitori mi rivolgevo dando del voi».

Papà Francesco e l’altro capo famiglia si svegliavano molto presto, la mattina. «Era autunno, iniziava a fare freddo», ricorda Virginio, «e un giorno si alzarono che era ancora buio. Andarono in bagno, fuori. Non si accorsero che c’erano nascoste delle persone, dietro gli alberi. Erano fascisti».

UNO DOPO L’ALTRO sbucarono dai campi una settantina di soldati. «Stavano cercando due partigiani», racconta Marchi. «Presero mio padre e l’altro uomo e a noi ordinarono di uscire in cortile. Continuavano ad urlare “Dateci il tenente Sciva e il suo compare!” ma mio papà non conosceva nessuno con quel nome. I signori che vivevano a palazzo se n’erano andati un paio di giorni prima, forse li conoscevano loro».

I fascisti così radunarono le due famiglie e le fecero disporre una a fianco all’altra, con le spalle a una recinzione. «Avevamo i fucili puntati contro. Mia madre e le mie sorelle piangevano, mio fratello Luigi allora aveva appena sei mesi. Continuavano a chiederci di tirare fuori i due partigiani sennò avremmo fatto una brutta fine. Siamo rimasti così per ore prima che un soldato tedesco, molto giovane, in un italiano incerto disse al capo spedizione “Dai, lasciamoli in pace. Guarda come son messi, tremano tutti di freddo, ci son dei bambini piccoli” e il comandante lo ascoltò».

Virginio e la famiglia vennero così chiusi in una stalla. «Appena entrati sentimmo che fuori avevano iniziato a sparare, eravamo terrorizzati. Siamo usciti ore dopo, quando non abbiamo sentito più nessun rumore. Avevano ucciso tutte le galline e rotto tutto quello che potevano sia a casa nostra sia dentro al palazzo. Ma ci hanno risparmiato la vita».

Oggi Virginio ha 84 anni. E sorride, quando aggiunge: «I due partigiani c’erano, erano nascosti in una galleria scavata poco lontano dalle nostre case. E mio padre e l’altro mezzadro lo sapevano. Però i fascisti cercavano il tenente Sciva e il suo complice. I due che nascondevamo noi si chiamavano semplicemente Marcello e Gianni...».

Serena Marchi

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