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A San Bonifacio

Quattro in fuga
dal Venezuela
finito nel caos

A San Bonifacio
Barbara Polo, con lo zio Silvano Polo e i figli
Barbara Polo, con lo zio Silvano Polo e i figli
Barbara Polo, con lo zio Silvano Polo e i figli
Barbara Polo, con lo zio Silvano Polo e i figli

«Le nostre vite chiuse in due valigie di 23 chili: in Italia siamo rientrati così, attraversando a piedi il confine schiacciati tra le 35 mila persone che ogni giorno affollano il ponte sul confine. Sami è ancora ostaggio nel nostro Paese».

Sembra una delle tante storie dei migranti che approdano in Italia, invece è quella di una famiglia di cittadini italiani che è riuscita ad arrivare a San Bonifacio dopo essere fuggita dal Venezuela. Barbara Polo, coi figli Denisse (18 anni), Daniel (di 10) e Nicole (che ne ha 8) è una delle figlie di Andrea Polo, imprenditore sambonifacese ucciso a San Cristobal, stato di Tachira, il 7 marzo 2016.

Ad accogliere lei e i nipoti - com’è stato poco più di un anno fa con Oscar, il più piccolo dei figli di Andrea - è Silvano Polo, ex sindaco di San Bonifacio e fratello del defunto. «La situazione in Venezuela è al collasso e il rischio della chiusura delle frontiere è forte: l’Italia», tuona Polo, «non può abbandonare migliaia di suoi connazionali in Venezuela».

 

«Chiedo ai parlamentari veronesi di intervenire e di prendersi a cuore questo dramma: io, da mesi, mi sto occupando della famiglia di mio fratello», spiega Silvano Polo, «e ho scoperto che questo inferno lo stanno passando migliaia di italiani, di fatto sequestrati in Venezuela».

È di sicuro così per Sami Harb, 54 anni, marito di Barbara Polo: alla fine dello scorso anno Harb, medico senologo e vice primario, ha deciso di scappare. «Impossibile pensare di fare il medico in ospedali che non funzionano più, dove non arrivano farmaci e le attrezzature sono inutilizzabili perché nessuno aggiusta i guasti», spiega Barbara Polo, «e poi la paura per la sua salute: ha subito un intervento e sa che se avesse bisogno di qualsiasi cosa, nessuno potrebbe prendersi cura di lui».

Harb è cittadino italiano in seguito al matrimonio. Con la famiglia inizia a preparare i documenti, il dottore i documenti. «Quattro chili di carte», sbotta Silvano Polo, documenti che, una volta tradotti, serviranno per ottenere la «Dichiarazione di valore», cioè l’attestazione di laurea necessaria per praticare anche in Italia. «Volevamo aspettare la fine della scuola, ma la situazione sta precipitando: ho venduto la macchina in dollari al mercato nero, rischiando l’arresto come è successo ad Alexander, il mio vicino di casa, e sono riuscita a comprare i biglietti aerei e ai primi di giugno siamo scappati. Sami», dice Barbara Polo, «ci avrebbe dovuto raggiungere dopo un mese». Non è stato così.

«Al consolato di Maracaibo, Sami ha scoperto che la funzionaria con cui aveva appuntamento da un mese e mezzo, e confermato tre giorni prima, non c’era. Per raggiungere il consolato», spiega Silvano Polo, «bisogna prendere un pullman e fare 500 chilometri all’andata e altrettanti al ritorno. In auto non si può perché la benzina è razionata e si rischia di essere ammazzati».

È successo anche a Barbara, due volte: «La prima tornando a casa dopo aver prelevato Daniel a scuola: mi hanno fermata e puntato la pistola alla testa. La seconda mentre ero in fila per i miei 30 litri di benzina. Sulle targhe hanno messo un chip per controllare gli approvvigionamenti, se ti trovano con le taniche ti arrestano». In questa situazione al marito è stato detto di tornare la settimana dopo o di lasciare i documenti originali. Silvano e Barbara Polo spiegano che al telefono del consolato di Maracaibo non risponde nessuno; le email non vengono recapitate perché le caselle risultano sempre piene: «Una situazione terribile», dice Barbara, «sei mesi per una dichiarazione di valore, tre anni per il passaporto».

Impossibile la via telematica: «Gli uffici sono irremovibili: la Farnesina mi ha confermato che la dichiarazione di valore può essere consegnata solo a mano, al diretto interessato o a un suo delegato. Sami», spiega Silvano Polo, «ha incaricato un avvocato che seguirà la pratica e il 22 agosto prenderà l’aereo per venire a vivere a San Bonifacio». Sarà al sicuro? «Sì, ma non abbiamo idea di quando arriverà quella dichiarazione che gli consentirà di lavorare», dice Silvano Polo. «Una cosa è certa», aggiunge Barbara, «la nostra casa sarà espropriata: sta succedendo a migliaia di venezuelani in fuga». Con molta regolarità Silvano Polo chiama la Farnesina, ma la situazione è bloccata. «È un’emergenza vera, possibile non si trovino altre vie? Potenziare gli uffici del consolato e dell’ambasciata per lasciar partire gli italiani, oppure fare in Italia le valutazioni documentali?».

Polo ha scritto decine di email al ministro veronese Lorenzo Fontana e al deputato Paolo Paternoster: «Sono amici prima che politici, e sono partito da loro: serve un’azione congiunta, per mio nipote e tutti gli italiani prigionieri in Venezuela, centinaia e centinaia. Rivolgo il mio appello a tutti i parlamentari veronesi: venite in Sala blu».

Paola Dalli Cani

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